Ricerca personalizzata

sabato 27 dicembre 2008

26/05/2006 20:58,casa di Tonius

Vorrei dissolvermi
come una nuvola di fumo,
come una vibrazione sonora,
consumarmi come una sigaretta,
essere aspirato dal tempo,
e non mi dite che sono un blasfemo,
che devo accettare questo splendido dono che è la vita…
Al diavolo!!!

So io cosa devo fare
e sopportare
per arrivare
con lo stomaco pieno la sera.

Buonanotte,
domani un’altra giornata di merda
mi attende.

Francesco Favia

26/05/2006


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26/05/2006 20:38, camera di Tonius

Come la cacca restiamo fermi,
immobili,
con tante fastidiose mosche che ci ronzano
intorno
con squilli polifonici e vibrazioni ruspanti.

L’apatia pervade i nostri pori.
Non ci resta che canticchiare per non pensare al suicidio
o darci da fare per ottenere la pseudo felicità del denaro.

C’è tanta voglia di morire,
ma chissà cosa ci trattiene dal voler continuare a vivere…
Voler continuare…
Insomma, si continua…
Si vive,
male,
ma si vive…

L’unica vera libertà,
forse,
è davvero morire…
forse non sarà vera,
ma comunque ci si libera dalle responsabilità,
dai sensi di colpa,
dai rompipalle…

Si manda tutto a fanculo
e non ci si vede più.


Francesco Favia

26/05/2006


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Finale di poesia

…compagna mia,
non andare via…

Francesco Favia

26 maggio 2005


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venerdì 26 dicembre 2008

Maledetto malessere

Pervaso da ansia lacerante,
la paranoia sembra essere il mandante…
Sto male e non capisco il perché…
Ma l’origine del mio male non so qual è…
Forse un giorno, fra un mese o fra cent’anni,
avranno fine i miei malanni…
Non so se morirò a causa di un incidente o di una malattia,
ma alla fine cosa conta, cosa vuoi che sia…
Forse mi farò un buco qui, proprio sulla tempia,
ma se non vuoi, allora cercherò di far sì che la luce non si spenga.

Francesco Favia

giovedì 10 gennaio 2008 ore 00:20


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martedì 23 dicembre 2008

La perpetua sofferenza della mia anima


La perpetua sofferenza della mia anima,
evanescente, pervade il mio stomaco,
la odo,
sembra il pianto di un bambino.

Si dissolve,
ma non scompare.
Percepisco la sua presenza.
Fumante,
i suoi vapori si innalzano sino al cervello.
I suoi sensori la captano.

Il sistema nervoso trasmette in tutto il mio corpo
una profonda rabbia.
Mi viene da urlare.
Urlo.
Un profondo, intenso, lungo urlo che sfuma nella raucedine.

Prendo a cazzotti l’aria.
Mi fermo.
Le mie mani tremano.
La perpetua sofferenza della mia anima,
diffusa in tutto il mio corpo,
tremendamente mi fa tremare.

Il male è dentro me,
dovrei vomitarlo fuori.
Non ci riesco,
è incollato alle pareti delle mie interiora.

Mi logora,
fa marciume di me.

Sbudellato
come la poltiglia di un cane morto sul ciglio della strada,
mi accingo a tornare al lavoro.


Francesco Favia


29 maggio 2007

Schizzo dovuto al forte caldo

La vita è uno schifo…
ma non lo dite a nessuno e sorridete,
perché io per primo voglio vedere in giro volti sorridenti…


Francesco Favia


23 luglio 2004


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Versi di solitudine


Che vita inutile…
Non mi resta che…
farmi scaldare dal tepore del sole,
farmi coccolare dal vento
e…
baciare bottiglie di birra.
Francesco Favia



domenica 4 luglio 2004, 17.45.42

Inizio di una storia d’amore

So che te ne andrai
o me ne andrò
e come farò,
cadrò,
a rialzarmi proverò…

Fradicio di inquietante felicità,
presto mi asciugherò…

Mi bagnerò di nuovo…
Danzerai su un buio oceano,
nel quale annegherò …

Tu volerai,
io sprofonderò…

Spariremo e saremo felici.


Francesco Favia


martedì 14 marzo 2006 ore 21:58


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domenica 21 dicembre 2008

Come uno stronzo

Sono solo in questo affollato mondo,
solo come uno stronzo in questa merda di mondo
e non posso far altro che sentirmi stronzo…
Sono un ignorante che sguazza tra la saccente ignoranza dei predicatori…
Sono inutile come questa inutile terra, tra vite che fanno di tutto per essere utili…
Sono un morto di fame che cerca la morte in questo miserabile mondo affamato.
Morente… mi sostituirà un nascente…

Una vita albeggiante,
saluta il mio tramonto.


Francesco Favia


sabato 1 aprile 2006 ore 21:35


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E scrivo...

E scrivo…
Non so cosa...
In questo preciso istante ho voglia di scrivere...
di scrivere qualcosa…
ma per non scrivere cazzate…
è meglio che vada a dormire.

Francesco Favia

29 ottobre 2004


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venerdì 19 dicembre 2008

I miei occhi


I miei occhi sono tristemente malinconici…
I miei occhi sono profondamente profondi.
I miei occhi sono stanchi…
sono stanchi di piangere.

I miei occhi piangono troppo,
piangono troppo per niente…
perché niente sono le persone per cui piangono.


Francesco Favia



12 giugno 2003

Suicidio di un diavolo

Me ne frego, me ne frego,
perché la gente se ne frega…
in questo mondo in cancrena,
io mi faccio in endovena
guardando le tette di Malena!

Qui dove trovare lavoro
è una caccia al tesoro,
sfoggio il mio cuore d’oro,
mentre mi mandate a fanculo tutt’in coro!

Me ne strafrego di voi,
e so che mangerete i miei resti come avvoltoi,
e poi, poi,
se muoio non sono cazzi tuoi!

Il mio cuore è un troione,
si fa bagnare da un gavettone,
lo usi, lo getti e tiri lo sciacquone.

Fanculo, rottoinculo,
resusciterò
e l’anima ti prenderò,
ma prima ti sgozzerò,
tra sangue e vomito ti lascerò.

Agonizzante in questa vita sognante,
alla tua tipa regalerò un diamante,
e le farò avere un orgasmo disarmante.

Quando tutto sarà compiuto,
non mi resterà che tornarmene da dove sono venuto
e lì negli inferi potrò dire che ho goduto.


Francesco Favia


lunedì 15 ottobre 2007 ore 23:06


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Corro immobile

Sotto questa pioggia scura
Invoco la pietà degli dei,
inebriato da effimera estasi,
accarezzato da una invitante melodia jazz,
corro immobile,
scappo dalla mia anima.

Il mio corpo è qui.
Giace senza vita.
Non lo vedi?
Io lo vedo.


Francesco Favia

venerdì 16 novembre 2007 ore 14:25

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Juliana da vicino

Non mancava molto all'orario di chiusura. Tra le ultime persone entrate c'è stata anche una ragazza alta, dalla pelle abbastanza scura. Era effettivamente una bella ragazza, ma a fine giornata sono alquanto stanco o, per lo meno, non vedo l'ora di tornare a casa. Stanco, affamato, prossimo a concludere quest'altra giornata di lavoro, odo una collega che dal piano superiore chiama un'altra collega che si trova giù, al pian terreno.
"Eleonora, indovina chi c'è su?"
Eleonora smarrita chiede chi ci fosse.
"Juliana!" si sente rispondere.
Io penso che si trattasse di qualche collega di un altro punto vendita o comunque qualche loro amica.
"Juliana chi???" risponde Ele, sempre più confusa.
"Juliana di Mammuccari!"
Subito si crea nell'aria una sottile atmosfera entusiastica.
Nessuno l'aveva riconosciuta. Nessuno tranne una bambina.
I bambini sono più perspicaci degli adulti o semplicemente vedono più televisione degli adulti che sono intenti a lavorare per mantenere loro e pagare l'elettricità per tenere in vita quella scatola schermata?
Tornando a Juliana, le ho aperto la porta, mentre si accingeva ad uscire, poichè avevamo già chiuso il negozio, e l'ho salutata come saluto un qualunque il cliente. Lei non mi ha degnato di risposta.
La collega che l'ha servita dice che se la tirava un po'. Forse aveva ragione. Spesso nel negozio dove lavoro ho visto gente nota nelle televisioni locali: giornaliste, comiche, attrici. E forse Juliana se la tirava anche di meno, se non altro meno delle giornaliste.
Comunque mi è sembrata una ragazza molto semplice e con la sua sobrietà riusciva a camuffare molto bene la sua straordinaria bellezza.

Francesco Favia

martedì, 27 novembre 2007

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giovedì 18 dicembre 2008

Storia di un amore sanguinante (abbozzo)


venerdì 4 novembre 2005, 21.50.18 (data d'inizio della stesura)



Se ne stava seduto lì, su una sedia. Gomiti sul tavolo, al collo uno strofinaccio. E se ne stava lì, davanti ad un televisore acceso. Un televisore di fronte a lui e alla sua sacra tavola. Se ne stava lì, da solo, ad inzuppare cozze in un bicchiere d’aceto e a farle sparire con disgustosi rumori labiali. Un telegiornale locale parlava di cronaca nera.
Una coppa di mitili, un bicchiere d’aceto, una damigiana di vino con la quale si sbrodolava e una pistola a tamburo: questi elementi apparecchiavano la tavola sacra, la tavola sacra di Francesco Della Miseria.
Arrogante, schivo, iroso, Francesco Della Miseria era noto come Ciccìll U’matt per la sua terribile violenza che esplodeva spesso nel pieno di una apparente quiete atmosfera; oppure lo chiamavano U’liòn, per quel grande tatuaggio del re della foresta che decorava il suo grosso tricipite sinistro. Aveva, di fatto, un bel fisico muscoloso. Si allenava e tirava di boxe in una palestra in periferia.
Viveva in una città bagnata da un mare ricco di storia, dove i pescatori riempivano le reti di pesce e storia, storia e pesci; ricco di animali con pinne, branchie e lische che fanno gola ai ristoratori ed ai suoi clienti, alle massaie ed ai professionisti ed a tutti quelli che fanno la spesa; e ricco di antichi pezzi che farebbero gola agli archeologi ed ai collezionisti.
Una zona del mondo dove devi camminare per strada con la faccia incazzata, se non vuoi che la gente si incazzi con te. E questo trentenne, appartenente alla famiglia Della Miseria, camminava con la faccia incazzata, di certo, non perché temesse di essere aggredito. Era davvero incazzato. Una rabbia repressa, tramandata dai suoi miserabili avi. E per questo andava in palestra. Per scaricare la sua collera innata su un sacco o su un povero disgraziato. Si sfogava così. Cercava di non farsi ulteriori nemici. Sapeva che nemici, ben mimetizzati tra gli amici, c’erano già di per sé. Non voleva aumentare il numero di questa nicchia per via del suo pessimo carattere. O meglio, per la sua difficoltà a tollerare i comportamenti altrui. Chi più, chi meno, possedeva qualcosa, qualche atteggiamento che lo infastidiva. Non solo chi lo circondava, lo assecondava per timore, per pseudo rispetto, per non aver problemi, ma doveva anche far ben attenzione a come muoversi e come parlare per non far scattare un attacco omicida da parte di quel psicopatico. E Ciccillo un po’ era consapevole dei suoi istinti animaleschi. Era come quei pitt-bull o quei galli che vengono stuzzicati dagli uomini per mesi, per poi far esplodere la loro rabbia sempre più repressa e sempre più aizzata da schifosissime braccia pelose di hijos de puta, in combattimenti con altri loro simili istigati alla violenza. La vita lo aveva così stuzzicato che aveva sempre voglia di menar le mani. Ed era un portento. L’allenatore della palestra che frequentava gli aveva sempre chiesto di partecipare a degli incontri ufficiali. Begnamino Losurdo, l’allenatore, credeva che sarebbe potuto arrivare a combattere per il titolo nazionale, se non addirittura continentale, della categoria dei pesi medi. Francesco Della Miseria gli rispondeva sempre che aveva troppo da fare per prepararsi seriamente per degli incontri e che non poteva allontanarsi dalla città, perché doveva essere sempre presente, presente per controllare e gestire i suoi affari illeciti. Illeciti non lo diceva, lo sottintendeva.


Francesco Della Miseria ricorda ancora quando con suo padre, nel periodo del fermo biologico, andava su un porticciolo, una insenatura fuori città, nella quale ondeggiavano onde, gabbiani e paranze di una cooperativa di pescatori, a pescare salipci. Li vendevano ad un negozio di articoli da pesca, nel quale venivano rivenduti come esche. Erano piccoli esseri natanti, pesciolini che si nutrivano anche di carne morta. Per pescarli i due, padre e figlio, legavano al centro di grossi retini da pesca, dei pesci morti, pesci più grossi di questi salipci . E quest’esca funzionava. Dunque non erano che piccoli sciacalli marini, paragonabili ai vermi e ai microrganismi che nel sottosuolo divorano la nostra carne morta, esseri che decompongono per vivere. Il destino per questi animali era segnato per gran parte di loro, per gran parte degli abitanti di quelle acque. Quando i retini venivano tirati su con una cordicella, tra le variopinte alghe che colmavano quelle reti, ci si trovava granchi, granchietti, vermi lunghi, corti, sottili o spessi, colorati di un verde brillante, pronti a mimetizzarsi con la flora marina, o scuri come scarafaggi acquatici, comunque qualsiasi specie di essere viscido, strisciante sul ventre o su delle miserabili zampette.
All’epoca Ciccìll era poco più di un ragazzo, aveva la barba lunga, ma non era Hemingway. Non pescava pescespada lunghi tre metri come quel grande personaggio della letteratura del Novecento. Non si faceva fotografare con la sua preda, non mostrava la fierezza che aveva quel premio Nobel di essere quello che era. Egli pescava prede di pochi centimetri. Non pescava per divertimento. Pescava per non fare la fame, per non fare la fame nel periodo del fermo biologico, perché lo Stato non avrebbe risarcito gli umili pescatori nel giro di un mese o poco più. Lo Stato se la prendeva comoda, perché lo Stato è lo Stato.
Ciccìll pescava. Pescava sereno dopotutto. Contento di stare a fianco a suo padre. Contento della felicità di suo padre per averlo vicino. Contento della loro umiltà, fiero della loro umiltà. Fiero della loro umiltà. Fiero di non essere in quel lido adiacente al porticciolo, dove si scorgeva qualche ombrellone. Fiero di fare un mestiere da vero uomo. Un vero uomo come quelle delle storie da marinai, delle leggende sul mare, storie e leggende in cui si narra di uomini veri che hanno avvistato sirene e mostri marini o di vecchi che lottano contro la natura, ma dove la natura ha la meglio come su quel povero pescatore cubano che catturò un grosso marlin e cercò di salvare la sua preda dall'assalto dei pescecani; leggenda tramandata da nonno a nipote, da padre in figlio, da fratello a fratello, da amico ad a amico in quel di Cuba e che un certo scrittore la pennellò con la sua macchina da scrivere, realizzando la miglior storia che abbia mai potuto realizzare, beccandosi un premio che sarebbe dovuto andare simbolicamente ad uno di quegli umili pescatori cubani, che s’ammazzano di fatica sotto il sole e per via di quell’Astro, vitale per il nostro pianeta, dimostrano vent’anni in più della loro reale età e che sono analfabeti e non potrebbero nemmeno sognarsi di vincere quel premio.

Suo padre, stanco della povertà che avvolgeva lui e chi lo aveva preceduto, iniziò a farsi qualche soldo in più trasportando sulle imbarcazioni su cui si guadagnava il pane, merce per conto di certa brava gente. Lentamente diventò anch’egli una brava persona rispettabile e si comprò un peschereccio, poi due, cinque, sei ed adesso tutti i pescatori lavoravano per questo grande armatore.
La famiglia Della Miseria deteneva un ricco traffico marittimo di armi e droga e comandava la città con altre brave famiglie.
Ciccìll U’ Liòn era il più pericoloso esponente di quella malavita locale che commerciava, se così vogliamo dire, con mezzo mondo. Con sé aveva sempre uno sguardo perennemente torvo, un revolver e una croce d’oro appesa ad una spessa catena d’oro portata al collo. Non credeva a nessuno e a niente, tanto meno a Dio ed i preti gli stavano sulle palle. Portava al collo quella croce perché era un caro ricordo, gliela regalò sua madre, scomparsa dopo una grave malattia. Forse anche la perdita della madre poteva essere sintomo di quella sua rabbia. Resta il fatto che comunque chiamare quell’uomo malvagio sarebbe stato un complimento.
Odiava la gente. Delle donne amava solo il fisico, ovviamente se erano ben messe. Odiava la gente, però non si può dire che si divertisse ad ammazzare, tuttavia far fuori qualcuno non gli faceva né caldo, né freddo; e questo non è roba da poco.

Sapeva che era alla sua corte per i suoi soldi, come sapeva che i suoi scagnozzi erano ai suoi ordini per il suo potere.
Samantah era una delle donne di Francesco Della Miseria. Questa prosperosa ventenne mediterranea, sapeva ben recitare la parte dell’innamorata. Lei, in fondo era la classica tipa che s’innamora di chiunque la trattasse male, ma, forse, le piaceva essere la donna di uno potente, di uno di cui bisogna avere timore e comunque l’amore con lei non aveva mai avuto niente a che fare.
“Chi è al telefono? Con chi stai parlando?”
“Stai zitta!” rispose innervosito Ciccìll a Samantah. “Si, sto arrivando.”
“Dove vai?” interrogava quella venere ammantata dal solo lenzuolo.
“Da una.” Rispose il guappo mentre si alzava dal letto. La tipa iniziò ad urlare, a mettere in atto la solita sceneggiata di gelosia. Non scenata di gelosia, ma una vera e propria sceneggiata. Non era gelosia d’amore, era gelosia possessiva, egoistica: solo lei doveva essere la donna del boss.
E lui si rivestì noncurante delle grida.

Giù, ad aspettarlo c’era un suo compare. Non doveva andare da nessuna donna. Aveva un lavoretto da fare.
Su una bella cabriolet sfrecciava su una strada secondaria, tra gli uliveti, tra i raggi del sole filtrati dai rami. Si respirava una magnifica aria primaverile.
“Pinucc’ passami le sigarette.”
E Pinuccio al suo fianco gli passò il pacchetto e spinse il pulsante dell’accendisigari. Quando fu caldo, lo estrasse e accese la sigaretta che il suo capo stava facendo penzolare tra le labbra.
“Questo scimunito si è permesso di dire…”
“Si…” e Pinuccio lo assecondava.
Dopo quasi un’ora arrivarono in un casolare in piena campagna.
Su un masso c’era un tizio seduto. Il tizio che parlava a sproposito. Di fianco a lui, due brutti ceffi lo tenevano d’occhio, o meglio, lo guardavano storto. Non c’era bisogno di controllarlo, non sarebbe mai scappato, perché altrimenti si sarebbe trovato una pallottola nella schiena.
Senza dir nulla, U’ liòn gli si avvicinò e lo colpì violentemente con uno sganassone.
“Guaglio’ tu parli assai, lo sai? O no?” Disse U’ Liòn e quello zitto. Zitto, fermo, immobile. Un mutismo e un’ immobilità che accompagnavano quel suo sguardo terrorizzato.
Aveva fatto uno sgarro, l’avrebbe pagato. Pagato caro.
Ciccìll lo prese per i capelli e lo trascinò di forza qualche metro più in là, vicino alla merda di una mucca o di un cavallo.
Ciccìll gli mise la canna della sua pistola in bocca e quello iniziò a piagnucolare. Ciccìll pensò poi di rompergli i denti col calcio della pistola, ma poi cambiò di nuovo idea, tornando all’idea grottesca della merda. Di forza gli ficcò la testa in quella merda fresca gridando: “MANGIA, MANGIAMERDA, MANGIA!”
“Che puzza… guagliò, andiamocene.” Disse Ciccìll ai suoi ragazzi. E sgommarono tra la polvere, lui e Pinuccio sulla cabriolet e gli altri due su un piccolo fuoristrada.
A quel tizio gli andò di lusso. Quell’uomo commise uno sgarro e lì, in certi contesti, si muore per molto poco. Dopo quella abbuffata, avrà sicuramente imparato la lezione e comunque avrebbe avuto modo di digerire, visto che avrebbe dovuto camminare un bel po’ prima di raggiungere un centro abitato.

Quell’uomo era davvero un pazzo. Non scherzo. Era da rinchiudere.
Una sera d’estate con la sua cricca era andato in un grand hotel, dove si cenava e si ballava su quel suo grande terrazzo. Tutti lo conoscevano e lo rispettavano per rispetto o per timore. Dal personale dell’ hotel, a tutta la gente che era lì per divertirsi.
Con Ciccìll, oltre ai suoi compagni di malavita, c’era la sua donna, o almeno quella che si credeva la sua donna. Ciccìll quella sera era sereno. Voleva rilassarsi, non pensare a niente. Ed era anche abbastanza cordiale, affabile. Bastò un gesto per cambiare il suo umore di colpo. Un’azione incosciente. Non l’avesse mai fatto. Se si fosse stata ferma, avrebbe avuto ancora il suo bel nasino intatto. Ma quella stronza di Samantah con la sua stupida gelosia e la sua mania di protagonismo si diede la zappa sui piedi. Sulla terrazza, nella zona dove si ballava, c’erano dei tavolini. La gente dopo aver cenato, si spostava in quell’area. U’ Liòn e i suoi amici con le loro donne, si erano adunati attorno a tre tavolini che avevano unito. C’era molta gente lì, e le sedie ed i tavoli non bastavano. Non erano in tanti a ballare; erano molti di più quelli che rimanevano seduti col drink tra le dita a godersi un po’ d’aria fresca. Vicino a Ciccìll c’era una sedia vuota. Una ragazza gli aveva chiesto cortesemente se la poteva prendere. E Ciccìll, per cortesia e non per galanteria, le aveva sorriso e le aveva detto semplicemente “si”. Quell’altra pazza isterica di Samantah partì con uno schiaffo all’indirizzo della faccia di Ciccìll. A parte il fatto che quel gesto spazzava via il rispetto che nutrivano i suoi uomini e tutta la gente che era lì, a Ciccìll partiva letteralmente il lume della ragione (se sempre ne possedesse uno) se lo si toccava. U’Liòn sferrò un pugno in pieno viso a quella disgraziata. La musica pompava, esplodeva, e continuava nel suo turbinio, mentre tutti si erano pietrificati. E quella strillava, sbraitava, agitava le braccia, tremava tutta, mentre da quella maschera di sangue, lentamente gocce rosse s’insinuavano nel decolté.
“Vaffanculo, brutta troia” disse sommessamente il pazzo “Mi hai rovinato la serata.” E se ne andò, solo. Andò via, forse in bagno, forse al bancone per un whisky, comunque se ne andò, incazzato. Incazzato e fiero in un certo senso, con un alone di dignità che lo seguiva. Non stava scappando, non andava via con la coda fra le gambe. Stava andando via per calmarsi. Si doveva calmare e non perché doveva dare conto alla gente, lui non doveva dare conto a nessuno. Andava via per calmarsi, bere qualcosa, un po’ come contare fino a dieci prima di agire, ciò che avrebbe dovuto fare poco prima. Andava via per calmarsi, perché quelle grida isteriche soffocate dalla musica snervante e gli sguardi insopportabili di quella gente, insopportabilmente ipocrita, in giacchetta e abiti da sera lo facevano diventare ancora più pazzo. Andava via per calmarsi, perché altrimenti avrebbe fatto un buco in testa a qualcuno.

Qualche sera dopo, Ciccìll, uscito da un bar, era diretto verso la sua macchina. Aveva bevuto una birra e ascoltato le solite cazzate da bar. Si avviava tranquillo. Era a pochi metri dalla sua auto quando udì il suo nome. Urlarono ad una maniera a dir poco cafona e alquanto minacciosa “CICCìLL!!!!”.





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Era al bancone del Caffè Marittimo. Tra le dita il mozzicone di un toscano, mentre i polpastrelli della stessa mano reggevano un whisky. Erano le sei e tre quarti del mattino. Un tiepido mattino di maggio. Era in giro da qualche ora. Era stato ad un centinaio di chilometri più a sud, sempre su quella costa. Era stato a dirigere le operazioni di sbarco di un drappello di clandestini.
Poggiò il bicchiere vuoto su una banconota da dieci euro, comprendente la mancia. Salutò il barista e lasciò dietro di sé, sul bancone, banconota e bicchiere. Una volta fuori, si avviò verso la sua cabriolet, disinvolto nel suo gessato. Portava il colletto e altri due bottoni sbottonati. Peli neri al vento e collana e crocifisso ostentati con indifferenza. Occhiali scuri, mozzicone di sigaro ad un angolo della bocca, capelli ingommati da gel e barba di tre, quattro giorni. Aprì la portiera, si mise comodo e con un radiogiornale in sottofondo costeggiò il lungomare. Gli piaceva farsi accarezzare dalla brezza marina del mattino primaverile. I gabbiani starnazzavano e rasentavano l’acqua. Il sole timidamente si innalzava. Il cielo limpidamente azzurro, lo accoglieva con calma. E con calma Della Miseria cavalcava l’asfalto a bordo del suo giocattolino. Con assoluta pace interiore si godeva quell’aria e si dirigeva verso il molo.
I suoi pescherecci non c’erano. Avevano mollato gli ormeggi qualche ora prima. La giornata del pescatore inizia presto. Qualche peschereccio era attraccato. Erano alcuni di quelli più grandi. Questi navigano per settimane, dunque questi qui ormeggiati, o meglio chi ci lavora sopra, o erano a riposo o si stavano preparando per salpare a giorni. E si poteva vedere qualche lupo di mare cucire una rete o dare una mano di pittura.
Ciccillo si fermò vicino una di queste imbarcazioni. Scese dall’auto e gridò con voce profonda, un po’ rauca: “Ahuèèè!”
“Uè Ciccìll!” rispose uno di quei lavoratori. Un tipo tracagnotto, coi capelli arruffati e la faccia da maniaco. Era a petto nudo, tutto abbronzato, e stava lavorando sodo; risaltavano i muscoli delle braccia e si contraevano e allungavano, lasciando in secondo piano quella sgradevole pancia. Con un balzo felino Ciccìll passò dalla banchina all’imbarcazione.
“Come andiamo stamattina, caro Pasquale.”
“E come dobbiamo andare…” rispose quel pescatore. “Ora vieni da là?”
“Si.” Disse Ciccillo.
“Com’è andata?”
“Tutto a posto.” Rispose Ciccillo. Poi prese a cercarsi addosso qualcosa. La trovò. Era una scatola di fiammiferi. Se ne accese uno. Avvicinò la fiamma al mozzicone, coprendola con la sua manona pelosa. Aspirò e fece un sacco di fumo e tanta puzza tipica del sigaro. Pasquale continuava a lavorare incessantemente.

Francesco Favia

Libero e inquinato

Sono libero e inquinato
come l’aria che respiriamo.

Sono il nemico di questa società corrotta…
forse sono più una sua vittima.

Ci sputo su questo sodalizio immorale che mi circonda,
ma la mia saliva ha più valore di una qualsiasi sporca tangente.

Non mi fido più di nessuno,
perché chi credi amico sarà il primo a mentirti.

Fuck you love,
perché l’amore è solo un’eterna disillusione.

Sono contro tutto,
perché tutto il mondo è contro di me.

Francesco Favia

17 agosto 2003

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Dicono di lui...

Inguaribile nostalgico, passa tutte le sue giornate a guardare e riguardare spezzoni e sigle di programmi della sua fanciullezza e adolescenza. Affetto da una grave e potente forma di sfiga,per la quale non si è ancora trovato un vaccino in grado di debellarla,che lo porta all’età di 23 anni senza essere riuscito a trovare un lavoro retribuito (salvo sporadici periodi di miglioramento) ,continua nella sua perenne e spasmodica ricerca di un impiego(che non sia il solito di agente o rappresentanza). Fin dalla tarda adolescenza adotta a stato di figura paterna un essere ibrido,costituito da un incrocio tra Vasco Rossi- Robert De Niro e Henry Charles Buckowskij,verso i quali nutre e manifesta apertamente venerazione,riverenza e dei quali è fedele seguace. Caso volle che l’11/02/2006 egli conoscesse la donna della sua vita,ma quella data coincise anche con l’inizio di una crisi che portò a un processo di mutamento. Favia rivide tutti i suoi progetti e incominciò a “prendere a sassate tutti i sogni ancora in volo”per sostituirli con la ricerca costante di lavoro e denaro(purtroppo con scarso successo).Prima cosa che fece fu abbandonare gli studi di lettere all’università di Bari poiché onerosi e faticosi (galeotta fu la “Commedia”di Dante e chi la scrisse);pian piano,seguendo un lentissimo tramonto,depose le armi nei confronti della sua passione per la scrittura e il suo sogno di diventare scrittore affermato,un po’ per amaro disincanto e profonda sfiducia nel genere umano e nei meccanismi del mondo,un po’ perché completamente assoggettato dalla ricerca di denaro (non però mossa da avidità ma per poter godere anch’egli delle soddisfazioni di cui godono gli altri o per lo meno la maggior parte).Giorno e notte impegnato in tale attività,incappa nella rete di quel lavoro(SFRUTTAMENTO) che spinge a sacrificare anima e corpo per due soldi ,prima;successivamente in quell’altro genere di lavoro(ILLUSORIO)per il quale lo stipendio è più un ideale utopistico alla stregua della “terra promessa”o “l’infinito”. Attualmente ripreso dal cassetto il sogno di scrittore,tenta di farlo, a livello amatoriale,on line affiancandosi così ad altri consociati appassionati. Non ancora riuscito a trovare quello che cerca fin dal conseguimento del diploma,soffre di prolungati attacchi di scoramento e disperazione,covando costantemente la tensione all’evasione dalla sua città(Bari)verso sponde più promettenti e disponibili;ma ciò non gli è concesso a causa di una palla al piede di nome Federica.

dott.sa Cicchelli

Ma chi è questo Francesco Favia ???

Francesco Favia nasce a Bari, precisamente all’ospedale Di Venere sito nell’ex frazione Carbonara, nel 1983 da madre casalinga e padre pescatore.
Francesco visse un’infanzia serena assieme a suo fratello, più piccolo di tre anni, pur sentendo spesso la mancanza di suo padre, che era ed è quasi sempre lontano per lavoro.
Sin da bambino dimostra una gran attitudine per la scrittura e spesso la sua maestra d’italiano leggeva i suoi temi ad alta voce dinanzi all’intera classe. Le prime sue letture furono i racconti per bambini riportati sul suo libro di testo e altre collane di libri per la sua età che gli comprava sua madre. Amava molto i racconti e le filastrocche di Gianni Rodari e leggendoli gli passava nella sua mente di fanciullo che doveva essere un mestiere bellissimo quello dello scrittore.
Nonostante ciò e i plausi dei vari insegnanti per scritti prettamente scolastici, Francesco prese seriamente l’impegno della scrittura solo a diciotto anni, in seguito ad una sfida con una professoressa di Lettere della scuola superiore, che comportò la stesura del suo primo romanzo.
Da lì seguirono racconti poesie, le quali al termine del ciclo scolastico divennero sempre più impregnate di amarezza, disillusione e rabbia.
L’apice della rabbia si ebbe nel suo secondo romanzo. Il personaggio principale è notevolmente autobiografico, in dei contesti anch’essi riconducibili alla vera vita dell’autore, seppur la storia risulti essere di mera fantasia. Questo alter ego riversa su se stesso la sua rabbia, il rancore per un’inspiegabile inettitudine, deprimendosi progressivamente fino ad arrivare all’autodistruzione. Al culmine di tutto ciò, qualcosa si sveglierà nel suo animo da perdente.
Dopo la scuola, ebbe un anno sabbatico contornato da lavoretti. Si iscrisse in seguito alla facoltà di Lettere con indirizzo Editoria e Giornalismo per cercare di assecondare la sua indole. Dopo due anni di intenso studio, mancando comunque molto alla laurea, Francesco, necessitando di soldi, iniziò a lavorare a tempo pieno, trascurando gli studi e alla fine decise di rinunciare ad essi definitivamente.

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