Ricerca personalizzata

martedì 27 gennaio 2009

Week-end di un alienato

Quel sabato sera era abbastanza giù di morale. Raramente si sono visti sprazzi di allegria sul suo volto, ma quella sera era particolarmente afflitto. Gioacchino fu cresciuto dai suoi genitori a suon di insulti e umiliazioni. Viveva nel rancore e nella rabbia sin da bambino. Poco più di una decina d’anni fa’ andò via di casa. Adesso era un trentacinquenne che viveva solo in uno squallido monolocale di periferia. Per vivere faceva l’operaio; lavorava per una ditta di traslochi. Col suo stipendio a malapena sopravviveva, a stento riusciva a far la spesa e a pagare l’affitto e le bollette. Nonostante queste difficoltà economiche, cercava di non farsi mai mancare una bottiglia di buon whisky e qualche sigaro, sempre utili in quei momenti di maggiore sconforto.
Indifferentemente lavorava, faceva il suo dovere, ma quelle volte in cui il suo datore di lavoro lo trattava come una bestia, difficilmente gli riusciva facile fare l’automa. Tuttavia per non rischiare di andare a dormire sotto qualche ponte, resisteva alle umiliazioni, alle quali era comunque abituato.
Aveva perennemente sul viso un’espressione schifata, disgustata da questa vita, dalla sua vita.
Ogni tanto si sfogava su un sacco per pugili che aveva appeso al soffitto.
Quel pomeriggio dormì e si alzò stordito. Cenò con qualche scatoletta. Poi si rimise a letto a guardare la televisione. Non c’era una nulla di interessante come ogni sabato sera, come ogni sera.
Allora decise di sfogliare una riviste osé, ma dopo qualche minuto la riposò, annoiato, sul comodino.
In passato qualche volta se l’andava a fare una birra con qualche collega, ma erano ormai anni che lavorava solamente, diventando apatico ad ogni forma di svago in compagnia di altra gente. Un po’ perché tutti quelli che conosceva avevano messo su famiglia, un po’ perché la voglia di non vedere nessuno dopo il lavoro aveva avuto il sopravvento negli anni.
E adesso se ne restava lì, disteso su un letto eternamente sfatto, a guardare il soffitto e a contare le macchie di umidità. Lì, abulico, immobile. Fermo ad attendere che quel temporaneo viaggio della vita terminasse. Ad attendere la morte come via di fuga, ad attendere il suo destino come un pluriergastolano.
Ad un tratto, si alzò e andò ad accomodarsi nella zona giorno, poco più in là di dov’era.
Uscì la bottiglia del whisky, prese un bicchiere, appoggiò tutto sul sudicio tavolo e si sedette su una disagevole sedia. Si riempì il primo bicchiere. Lo sorseggiò. Si fermò poi ad osservarlo. Nella stanza il silenzio regnava. Una luce gialla, opaca, provava ad illuminare. Una formica passeggiava sul tavolo, prendendolo per una piazza. Su di essa, Gioacchino, ci versò un po’ di whisky. Continuò imperterrita nel suo percorso, seppur con qualche difficoltà nell’uscire da quel laghetto alcolico. Gioacchino riprese a bere, osservando la formica che si allontanava lemme lemme.
L’uomo si riempì un secondo bicchiere e se lo scolò a sua volta.
Andò in bagno e dopo aver pisciato, mentre si lavava le mani, si guardò nel piccolo specchio pieno di aloni. Mormorò: “Ammazza quanto sei brutto…”
Uscito dal cesso, andò in cerca di un sigaro ed una volta trovato, se lo accese con una lunga boccata. Una folta nebbia avvolse il suo sguardo spento. Se ne stava in piedi e fumava rilassato augurandosi un tumore. Il sigaro che si accese non era un mozzicone, ma poco ci mancava. Iniziò a camminare per la stanza, spargendo cenere. Iniziò ad assalirlo una sensazione di noia ed insoddisfazione. Non sapeva nemmeno lui di cosa avesse bisogno. Non era voglia di scopare. Era da tempo che non nutriva particolari desideri. Ci fu un periodo che si ammazzava di seghe e si fece tutte le mercenarie della zona, ma poi si stufò anche di quei passatempi. Non aveva fame e non aveva sete. E non aveva voglia di vedere e parlare con nessuno. Si stava annoiando, ma non voleva porre rimedio a quello stato d’animo. Lavorare, seppur lo facesse con indifferenza, senza particolari entusiasmi, gli piaceva, perché facendo qualcosa, evitava la noia. Tornava a casa con piacere dopo il lavoro, poiché la stanchezza accumulata, gli procurava una certa soddisfazione e poteva starsene nella sua apatia e nella sua solitudine con gioia, poiché comunque stava facendo qualcosa, ossia, si stava riposando, stava recuperando le forze come una batteria sottocarica.
Nel fine settimana era riposato e quel suo stato di isolamento a cui comunque teneva molto, gli creava tuttavia un lieve fastidio. Proprio come quando un insetto cammina sulla pelle di un uomo che non si accorge che un essere lo sta usando come tappeto rosso. Così era il fastidio che provava in quelle ore libere, solitamente dedicate alla famiglia e agli amici. Gioacchino non aveva né famiglia, né amici. I suoi unici rapporti umani, erano circoscritti ai soli ambiti lavorativi. E gli piacevano quei rapporti fatti di solidarietà, unione e complicità che aveva con i colleghi. Un po’ meno gli piacevano i rapporti col suo titolare, ma spesso non gli dava molto peso; l’importante per lui è che pagasse e che fosse puntuale nel farlo.
Terminò il sigaro, ma prima di spegnerlo per gettarlo, ustionò a morte una formica.
Non sapendo più cosa fare, si grattò le chiappe, spense la luce e si coricò, pur sapendo che per qualche ora ancora non avrebbe chiuso occhio.

Francesco Favia

domenica 6 aprile 2008 ore 16:07


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Sondaggio

Vale la pena vivere?

Francesco Favia

venerdi, 4 aprile 2008


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Genitore

Si è troppo egoisti per fare il genitore, meglio non diventarlo.

Francesco Favia

venerdì 4 aprile 2008


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Inutile

…quando ti senti inutile…
senza una donna che ti ami…
senza un briciolo di felicità…
…non cercare di rendere felice il prossimo…
non ne varrà la pena…

Francesco Favia

27 febbraio 2005


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martedì 20 gennaio 2009

Il mio show

Ehi! Fermati!
Perché mi eviti?
Si, sono proprio io,
non mi dire addio…

Sono quello sfigato
Che lavora al supermercato,
quello che si tormenta
o come dici tu che si lamenta.

Dici che scopiazzo,
tu sei un blasfemo, un pazzo.

Le mie lacrime sono vere,
le mie parole sincere.

Sai solo criticare,
giudicare,
indicare…

Quel dito vorrei spezzartelo,
ma mi limiterei a ficcartelo…

Stop!
Disprezzi da chi scrive poesie
A chi si diletta con l’hip hop.

Fermati,
specchiati.
Guardati prima dentro,
poi forse capirai i sentimenti di chi comunica con questo mezzo.

La letteratura, gli scrittori ci sono sempre sempre stati,
dal presente fin a risalire agli antichi romani.

Dalla pergamena, alla stampa,
dall’uomo che recita, all’uomo che canta.
Le parole sono divine, l’arte incanta.

Finchè vivrò,
scriverò,
sul web, sul bidè, questo è il mio show.


Francesco Favia


lunedì 25 giugno 2007 ore 22:30, dopo una giornata di lavoro, avvolto da una cappa di quaranta gradi.


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L’impossibilità dell’impossibile


L’impossibilità dell’impossibile,
pensando a ciò che potrebbe essere possibile,
impossibilitato da non possedere l’impossibile…
Ahhhh… non è possibile…



domenica 18 novembre 2007 ore 15:22

Senza titolo


Questa è una vita straziante

come le grida che lancia la mia anima.


Francesco Favia

30 luglio 2003

giovedì 15 gennaio 2009

Isteria di una donna

Si stava sniffando una riga di cocaina sul tavolo della cucina. Erano le tre del pomeriggio. Si era alzato da una decina di minuti.
Era irrequieto. Era sempre con i nervi a fior di pelle. Il suo locale andava bene, ci venivano ogni sera un sacco di studentelli e pseudo-tali. Era tuttavia pieno di debiti. La droga… ma non solo.
Un trillo trafisse la già dolente testaccia di Fred. Uno, due, tre squilli, poi si decise ad impugnare la cornetta ed a rispondere con la sua voce roca: “Pronto, chi è?”
“Ehi Fred!” una voce femminile.
“Lara… che caspita c’è?!”
“Non mi parlare con quel tono!” starnazzò la donna.
“Ok. Non ti parlo proprio.” Proferì, prima di riattaccare.
Si alzò. Guardò nel frigo. Lo chiuse. Voleva mangiare qualcosa, ma aveva lo stomaco chiuso.
Si indirizzò verso il cesso. Dopo una bella cacata, si spogliò e si rilassò sotto il caldo getto della doccia.
Si sentì un po’ rinvigorito, ma il mal di testa non ne voleva sapere di andarsi a fare un giro altrove.
Nella sua vestaglia di seta, girovagava per la casa. Doveva andare a fare la spesa per il suo pub: doveva fare rifornimento di pane, pomodori, stuzzichini vari, ma soprattutto di birre. La pigrizia e il mal di testa, però lo portarono verso il divano, in salotto.
Restò qualche minuto così, nel silenzio prodotto dall’appartamento. Teneva gli occhi chiusi e il capo poggiato indietro sulla spalliera del divano.
Si alzò, si allontanò e ritornò dov’era dopo qualche altro minuto. Si preparò uno spino. Iniziò a fumarselo mentre si tagliava qualche riga con una Visa.
Appena alzò la testa, suonarono alla porta. Ripulendosi il naso alla meglio con una mano, andò ad aprire.
“Tu non mi chiudi il telefono in faccia!!!” Entrò furente Lara.
“Che fine hai fatto!?” urlava la biondina “Non ti fai vivo da quattro giorni! Mi sono stancata di venire al locale la sera per non essere considerata nemmeno un istante! Tu la devi finire!”
Fred rimaneva in silenzio. Non l’ascoltava nemmeno. Si stava finendo tranquillamente di fumare la canna. Ogni tanto si limitava a pensare a quanto gli dolesse la testa.
“Con quante troiette sei andato a letto questa settimana!?? Eh!?? Rispondi!? Puttaniere!! Sei solo un puttaniere!!! Puoi solo pagare per scopare! Sei una merda!!!”
Ad un certo punto sembrò essersi calmata. Gli diede le spalle. A braccia conserte, continuò con tono sommesso a dirgli i morti e dargli del bastardo, coglione, figlio di una mercenaria.
Iniziò a piangere. Prima in silenzio, poi singhiozzando. A Fred non sono mai piaciuti i piagnistei. Preferiva di gran lunga le urla ai piagnucolii. Per non sentirla, gettò sul pavimento il mozzicone di spino, l' afferrò con fermezza, la girò e la baciò. La sbatté al muro, le alzò la gonna e dopo averle sfilato le mutandine se la scopò stringendole per tutto il tempo una coscia. Ritornò ad urlare, ma per altre ragioni.
Voleva solamente essere scopata, adesso era calma.
Fred si vestì e accompagnato da Lara, andò all’ipermercato.


Francesco Favia


lunedì 17 marzo 2008 ore 22:20


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martedì 13 gennaio 2009

Cosa vuoi che sia l'amore - Storia di una principessa e di un fabbricante di sogni

C’era una volta una principessa. Era una principessa bellissima da una lunga chioma profumata.
E c’era una volta un piccolo fabbricante di sogni.
Ognuno dei due viveva in un suo mondo.
La principessa viveva nel benessere della nobiltà. Aveva tutto: servitori, gioielli e tanti pretendenti ricchissimi.
Il fabbricante viveva nel benessere della fantasia. Aveva tutto... e niente.
Un bel giorno di una brutta vita si incontrarono per caso.
La principessa passeggiava tranquillamente per i prati dopo essere fuggita per un po’ alla noiosa vita di corte.
Ad un tratto vide un bel giovane che stava stralunato sull’erba.
“Ciao!” disse spontaneamente la principessa.
“Ciao…” rispose sorpreso il piccolo sognatore.
“Che fai?” chiese la ragazza.
“Non si vede?” rispose quasi seccato il ragazzo.
“Dormivi???”
“No. Faccio quello che non si vede.”
“Cioè?” domandò incuriosita.
“Sogno!” declamò il ragazzo.
“Ahh… ma sai che sei strano…”
“…Ma sai che sei antipatica?!?”
“Sei cattivo…”
“Io…sei tu che non ti fai gli affari tuoi.”
Da quel giorno cominciarono a parlarsi ed a vedersi appena potevano.

Un giorno in uno di quei loro discorsi…
“Sai, ho paura di innamorarmi, ma ho ancora più paura di innamorarmi di te.” Confidò il fabbricante di sogni. “Tu sei troppo bella ed hai centinaia di pretendenti, perché dovresti scegliere me, perché soffrire inutilmente…tanto non c’è bisogno di guardare in una sfera magica per capire che mi rifiuterai.”
“E’ vero non sei l’unico che mi corteggia…” disse la principessa
“Ehi bella…guarda che io non ti ronzo attorno!” esclamò questo ragazzo perso che si perdeva negli occhi della bella fanciulla.
“Mi piacerebbe, però…”
Il ragazzo non fece in tempo ad approfondire il discorso che la principessa sparì.
La ragazza tornò al castello. Era triste, perché pensava che non avrebbe più rivisto il fabbricante di sogni. Forse si sentiva in colpa per come lo aveva lasciato o forse era solo l’indecisione che la faceva sentire così perplessa.
Il nostro sognatore nel frattempo era sdraiato sul prato, respirava il profumo dell’erba e dei fiori e ascoltava il fruscio dell’acqua del ruscello.
Osservava il cielo e le strane forme delle bianche nuvole.
Si addormentava e ogni volta che si addormentava quella dea chimerica appariva nei suoi sogni.
E quando si svegliava, non gli restava altro che inseguire quel sogno.
Il ragazzo per dimenticare la principessa decise di partire, di andare il più lontano possibile da lei, per cercare di dimenticarla.
La principessa andò al ruscello ed errò per i prati circostanti alla sua ricerca. Incontrò delle signore pienotte e colme di vita che cantavano e lavavano i panni nel ruscello.
“Mi scusi” domandò la principessa ad una di quelle donne “avete visto per caso un giovane uomo? Di solito è sempre qui, da queste parti…”
“Forse ho capito…” disse un’altra donna che sentì il discorso “sta parlando di quel vagabondo, l’ho visto allontanarsi, seguendo il ruscello, con una sacca sulle spalle.”
La principessa ringraziò e corse al castello.
La principessa avendo capito che avrebbe potuto non rivedere più il fabbricante di sogni, sentì una sensazione di vuoto, capì di essersi innamorata di lui.
Spinta dalla follia dell’amore, la sera scappò dal castello, prese un cavallo dalla stalla, raggiunse il ruscello e galoppò fino alla fine del corso d’acqua.
Galoppò per svariate ore, illuminata solamente dalla luce della grande luna piena che c’era quella sera e che si rifletteva nell’acqua che scendeva a valle fino a raggiungere il mare.
Arrivata al mare, cavalcò sul bagnasciuga.
Era stanca e quasi rassegnata dall’idea di aver perso per sempre l’amore della sua vita, quando ad un tratto come un fulmine a ciel sereno vide il sognatore accovacciato sulla sabbia che udiva il dolce suono delle onde.
Scese dal cavallo e si avvicinò a lui con un sorriso, metafora di un sospiro di sollievo.
Muta, guardava il giovane sognatore.
Il principe del regno dei sogni, poi si voltò verso di lei e disse:
“Senti un po’…” richiamò l’attenzione della giovane principessa “…ma se io mi fidanzassi con un’altra?”
La fanciulla galleggiava in un silenzio che valeva più di mille parole.
“Crederesti che io ti abbia preso in giro…” sosteneva il fabbricante di sogni “Allora che devo fare? Morire in solitudine, perché la principessina che ho qui di fronte non si sa decidere!!”
Il fabbricante di sogni guardò la principessa negli occhi.
I due giovincelli avevano negli occhi una strana luce, avevano due sguardi teneri.
La principessa che tanto si mostrava forte, non seppe resistere ai dolci occhi del piccolo sognatore e lo baciò.
Un romantico bacio incorniciato da una scenografia spettacolare: l’alba donava al cielo sfumature meravigliose e il mare rifletteva una luce magica.
Passeggiarono mano nella mano sulla spiaggia e si godevano quei momenti, quella luce, quei colori, quelle sensazioni.
Il tutto sembrava materiale per un pittore impressionista, ma era molto di più di un vecchio dipinto… Era un giovane amore nato per crescere.

Francesco Favia

Racconto scritto nel 2002 tra i banchi di scuola

martedì 6 gennaio 2009

Feccia

Lo attendevano al Royal pub. Jack in una strada poco illuminata, camminava nervosamente. Era al verde da diverse settimane e non riusciva a trovare uno straccio di lavoro. La sua donna, Penny, gli aveva dato un ultimatum: “Non voglio passare la mia vita con un fallito!” Gli urlò qualche giorno prima. Erano solo parole strillate. Lei non lo avrebbe mai lasciato, era innamorata persa. Jack, comunque, ferito nell’orgoglio, decise che era giunto il momento di produrre grana, con qualsiasi mezzo.
Tom, Charles e Bob si stavano scolando diversi boccali di birra scura. Avevano iniziato a parlare grossomodo del colpo che avevano intenzione di fare ad un’agenzia assicurativa. Per i dettagli, attendevano Jack. Quest’ultimo era in ritardo, se ne rese conto ed affrettò il passo che echeggiava nella notte e tagliava la penombra. In lontananza intravide due brutti ceffi. Jack continuò a camminare tranquillo, pur consapevole del fatto che si sarebbe imbattuto in quei due balordi. Il più grosso gli bloccò il passaggio. Jack lo spinse chiedendogli se avesse dei problemi. L’altro, piccoletto, ma più aggressivo iniziò a blaterare e a partire di mani. Jack di costituzione era una via di mezzo tra quei due esseri, ma sicuramente molto più suscettibile di quei due ladruncoli di strada. Jack schivò i colpi del piccoletto, senza nemmeno sfilarsi le mani dalle tasche. Tutto finì lì, se ne andarono senza che il più grosso accennò ad un gesto e con il piccoletto che continuò ad inveire. Se fosse stato colpito, Jack, avrebbe reagito, dando sfogo a tutta la sua frustrazione, a tutta quella rabbia che reprimeva da tempo e avrebbe picchiato chiunque avesse cercato di attaccarlo, fossero stati anche dieci, cento, mille; a lui, ormai, poco importava di finire al camposanto. Si sarebbe fatto bucare da qualche lama, ma sicuramente avrebbe voluto morire attaccando e non subendo da indifesa preda.
Giunto al locale, li vide. Erano seduti, apparentemente tranquilli, nonostante fossero alticci.
Si avvicinò e prese posto.
“Ehi Jack, tutto bene?” fece Charles.
“Ciao ragazzi. Tutto bene.” Rispose Jack. Mentre gli altri ripresero a sputare parole, Jack con un fischio attirò l’attenzione del cameriere, al quale ordinò un doppio whisky liscio.
“Allora Jack, sei pronto?” disse Bob
“Abbiamo pensato di agire venerdì pomeriggio. Appena l’impiegata andrà a fare il versamento in banca, la blocchiamo e ci facciamo dare il denaro?” illustrò brevemente il piano Charles.
Tom era più propenso ad un attacco frontale, ad un’invasione della base nemica: “Io andrei direttamente nell’ufficio e preleverei il contante a modo mio.”
Jack sogghignò appena.
“Charles sostiene che sia troppo rischioso così.” Riprese il discorso Tom.
“Gli impiegati non sono tutti presenti al bancone vicino l’ingresso. Ce ne sono alcuni presenti in altre stanze dietro.” Spiegò Charles “Questi se sentono il trambusto, capirebbero e chiamerebbero gli sbirri.”
“Non ce la faremmo a prendere quel che dobbiamo prendere e a darcela a gambe.” Disse Bob.
I tre, brilli, non si preoccupavano di fare certi discorsi usando un basso tono di voce. C’era il solito baccano al pub e i loro discorsi si mescolavano al resto del fracasso. E a parte questo, il posto in questione era abbastanza malfamato, non c’era da preoccuparsi. Certo qualche sbirro in incognito poteva sempre capitare. E poteva sempre capitare che qualche sbirro in incognito fosse fatto fuori, se scoperto.
Erano le tre del mattino, quando i quattro uscirono dal Royal pub. Erano ubriachi. Anche Jack aveva bevuto qualche bicchiere di troppo.
Erano felici tra i fumi dell’alcool, mentre avvolti da una sottile foschia, pensavano al colpo che avrebbero dovuto fare un paio di giorni dopo.
Ad un certo punto il silenzio della notte, fu bruscamente spezzato da un rombo. Una potente motocicletta, cavalcata da due tizi dai visi coperti dai caschi, affiancò i quattro che barcollando, cercavano di fare ritorno alle loro tane.
I due sicari avevano un obiettivo preciso. “BANG! BANG! BANG!“ Tre colpi di pistola freddarono Jack, che cadde in una pozza si sangue. Gli altri, pur non essendo i bersagli dei killer, uscirono, comunque sia, illesi da quei fuochi d’artificio.
Tom, Charles, Bob se la diedero a gambe levate. I tre, può darsi, avrebbero fatto lo stesso fuori Jack per spartirsi meglio la torta. Due angeli della morte gli hanno fatto un favore.
Jack giaceva lì, sul marciapiede, agonizzante. Respirava a fatica. Sapeva che stava salutando quel mondo boia e forse era anche un po’ sollevato di lasciare la sua schifosissima vita. Per il resto, non pensava a niente. Fissava il vuoto buio della notte. Poco dopo sarebbe morto.
Qualcuno voleva la sua morte e la ottenne. Qualcuno che fu pestato da lui, qualcuno a cui doveva dei soldi, qualcuno con cui sgarrò, qualcuno.
Il mattino dopo, sotto un roseo cielo albeggiante, un netturbino avrebbe trovato la carcassa violacea di Jack.


Francesco Favia


12 marzo 2008 ore 19:15

Dentro di me

Assopito dalle coccole di un libro,

mi lascio scaldare dal tepore del mio corpo.

Mi stiracchio,

poi mi faccio piccolo e mi accuccio.

Chiudo gli occhi e non penso a niente.

Sono fuori dal gelido mondo esterno.

Dentro di me,

la pace dei sensi.

Francesco Favia

lunedì 10 marzo 2008 , ore 15:57


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lunedì 5 gennaio 2009

Ultime parole


Cara vita,
ti odio profondamente. Quante volte mi hai illuso, quante volte mi sembrava di avercela fatta ed invece tu con le tue strane circostanze mi hai ributtato al tappeto.
Mi hai piegato lentamente, destro, sinistro, mi hai messo all’angolo ed hai infierito senza pietà.
Sanguinante restavo in piedi e tentavo di reagire, ma tu ti prendevi gioco di me, facendo finta di prenderle per poi ricolpirmi pesantemente.
Quell’altro tuo compare del mondo che con la sora ingiustizia hanno alimentato un fuoco già acceso ed intenso.
E ve la ridevate, pezzi di merda… Tutti e tre sul ring, a prendermi a calci. Esanime, giacevo disteso sul mio stesso sangue. L’arbitro non esisteva. Quel cornuto, si è venduto per un pel di fica: si fa fottere da quella troia dell’ingiustizia.
E sempre più forti quei colpi, quelle pedate mi toglievano il respiro e mi annebbiavano la vista.
Ad un certo punto, spinto da un briciolo di orgoglio, rimasuglio della mia anima, riesco ad alzarmi…
Prima che tu ed i tuoi complici mi finiate, salto fuori dal ring, corro nello spogliatoio, mi sfilo i guantoni, apro l’armadietto e impugno la mia cara rivoltella.
Bang!
Vaffanculo… E così sia.


Francesco Favia



29 gennaio 2008 ore 22:00

venerdì 2 gennaio 2009

Vivere per sopravvivere

4 giugno ’07

 

Seduto sulla tazza del cesso, sento un magone. È il peso di un’esistenza insoddisfacente che ti  condanna ad un lavoro pietoso in attesa della vecchiaia o di una morte inaspettata.

Scorrono lacrime amare sul mio stanco viso. La consapevolezza di non poter vivere una vita intensa, mi fa preferire la temuta morte.

Fra qualche mese compirò ventiquattro anni. Me ne sento quarantaquattro. I miei sogni non si realizzeranno mai. E poi ho smesso di inseguirli da tempo. Ha un senso vivere per sopravvivere?

Vivere per guadagnare il necessario per non morire di stenti. Questa è la vita. Lavoro tutto il giorno, sopporto tutti e di tutto. Qualsiasi cifra è insufficiente per la privazione della mia libertà. Hanno cancellato i sogni dal mio cielo. Il mio cielo è grigio. Ci sono solo pensieri carichi di torbida pioggia.

Sto male. Dio che schifo la vita. Cazzo dico “Dio”. Non esisti, porco cane. Non potendomi aggrappare ai sogni, mi attacco a ‘sto cazzo…

Sto male. Non so come guarire. So già che non guarirò mai.

Non mi resta che tirare lo sciacquone.


Francesco Favia



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Durante un laboratorio universitario

Io non sono un genio

e non mi resta che esporre il mio dito medio

a voi docenti saccenti,

prudenti a non sembrar mai dementi.

 

E non chiamarmi deficiente,

perché il mio nervoso rovente

ti potrebbe scottare,

e non scappare,

cerca di affrontare la mia rabbia

che rinchiude in una gabbia

la mia vita tragica,

fatta di castelli in aria,

sognando un futuro migliore,

ma il mio presente ha uno strano odore,

peggiore della merda fresca,

e ho una fame animalesca,

che mi tormenta,

mentre l’anima mia si lamenta.

 

Tremenda,

la mia passione su questa terra.


Francesco Favia

 

 

 13 maggio 2006

 


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I am stronzo

Scusate... mi vado a gettare nel cesso, perchè mi sento uno stronzo...

Francesco Favia

SABATO, 19 GENNAIO 2008


Chiuso per sfiga

MOH E CHE CAZZ! NON PUOI FARE UN PEPITO CHE TI MENANO AD UCCIDERE...

Francesco Favia

SABATO, 19 GENNAIO 2008



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