Ricerca personalizzata

lunedì 30 marzo 2009

Popolo e democrazia

Se il popolo è antidemocratico, non c'è da stupirsi che lo sia la gente che usufruisce delle auto blu.

Francesco Favia

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Pensiero

Pensavo… pensavo che…
…che a guardare un concorso di bellezza,
si finisce per diventare finocchio,
perché è stomachevole il mettersi in mostra
di queste partecipanti senz’anima…

Francesco Favia

16 settembre 2004


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La vita è un sogno

Bisogna andare avanti,
e tu cosa canti!?!
Bisogna rompersi…
Ogni giorno.

La vita è dura,
ma per me è un sogno,
un continuo sogno!!

Quando stai male,
nessuno ti capisce,
quando stai bene,
qualcuno ti finisce!

La vita è dura,
ma per me è un sogno,
un continuo sogno!!

La realtà è triste,
la scuola è una palla,
ma a cosa serve
questa vita che ti inganna!??

La vita è dura,
ma per me è un sogno,
un continuo sogno!!
Un continuo sogno!!

4 dicembre 2001

Francesco Favia

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martedì 24 marzo 2009


Talento sprecato

Dicono che ho talento,
perché non scrivi sul giornale,
sai, citando lo zio Luca,
in quel mondo ci vuole un fisico bestiale.
Nella vita non sono un portento,
ed è per questo che pesto la tastiera,
così da poter far nascere in me il sole la sera.

Le mie dita si muovono sui tasti,
ma questo non credo che basti,
la malinconia non mi lascia sola,
ma la scrittura un po’ mi consola.

E che le mie parole colpiscono la gente,
ben venga,
ma non mi dispiacerebbe che volassero da qualche dirigente,
di una grossa casa editrice, si intende.
Non me ne vogliano i piccoli editori,
ma io di soldi per delle pubblicazioni,
li riserverei per ben più concrete ambizioni.

Con qualche migliaio di euro non ci si compra una casa,
ma di certo non permettono nemmeno di raggiungere la fama.
Meglio conservarli,
per poi ritrovarli,
insieme agli altri.

E se De Niro in un suo film sostiene
che la peggior cosa nella vita di un uomo
sia il talento sprecato…
bene,
ma come andrebbe risaltato?

Chi mi vuol rispondere,
risponda,
ma spesso di commenti,
non se ne vedono nemmeno l’ombra.

Non mi resta che porre un saluto,
per chi mi ha letto
e per chi in me ha creduto.


Francesco Favia

8 aprile ’08 ore 17:33


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Lasciati amare

Lasciati prendere,
lascia che ti spogli,
lasciati guardare
e guardami negli occhi.

Lascia che ti assaggi,
lasciati gustare,
lascia che ti guardi,
lasciami affogare nei tuo occhi.

Lasciati prendere,
lasciati andare,
lascia che ti ami,
lasciati rubare.

Ti prenderò
e ti porterò
lì dove non oseresti immaginare.

Tieniti stretta a me,
stiamo volando.
Grida pure,
non ti sentirà nessuno,
qui non ci siamo che io e te.

Lasciati andare,
ci sono io a reggerti
e finché campo
non ti lascerò stare.

Ti desidero,
ti amo,
è questo che conta,
tutto il resto non m’importa.


Francesco Favia



martedì 8 aprile 2008 ore 00:27


Dedicata a Federica


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domenica 15 marzo 2009

sabato 7 marzo 2009

Soggetti a vendetta

Da scugnizzi a scagnozzi pentiti
Peppino, Totuccio e Ninuccio se la facevano lì, tra via Pakistan e via Giamaica, in quel punto del quartiere ribattezzato “L’angolo dei teppisti”. Lì, su quel marciapiede, abbondavano le bottiglie vuote di birra nazionale ed i tappi di esse sull’asfalto, cospicui, decoravano quell’area suburbana.
Bazzicavano “La cantina dello zio Tom”, una squallida enoteca, fatiscente copertura della criminalità organizzata. L’enoteca era situata in via Pakistan. La gestiva Giosuè U’ Pakistan, detto così in quanto nato e cresciuto in quella via, dove ogni tanto pioveva, poiché le massaie sui loro balconi mettevano i panni sgocciolanti ad asciugare.
Peppino, Totuccio e Ninuccio erano dei grandi scansafatiche. Si arrangiavano spacciando ogni tanto e facendo saltuariamente qualche lavoretto per conto di Giosuè. La maggior parte del tempo, però lo impiegavano a scolar birre da tre quarti, grattandosi le gonfie pance e osservando scorrere la vita nel quartiere.
I tre non avevano nemmeno vent’anni e non avevano nemmeno la licenza media. Nonostante le loro frequentazioni, gli unici precedenti penali li avevano per aggressione ai professori della scuola media che frequentarono, conseguendo condanne per interruzione di pubblico servizio.
Nel quartiere si pavoneggiano coi ragazzini, vantandosi di rapine e risse allo stadio. Resta il fatto che non sono mai stati beccati per rapina e non si sono mai visti con lividi e lesioni causate da manganellate firmate dall’antisommossa.
Non avevano voglia nemmeno di intraprendere un’ascesa nel mondo malavitoso, ma quasi per inerzia avrebbero finito col diventare degli scagnozzi.
La loro sorte era segnata: sarebbero morti ammazzati per strada o in carcere.
Senza palle com’erano, non ci si stupisce che sarebbero diventati, dopo qualche anno, degli infami di questura.

Passarono vent’anni. Diventarono collaboratori di giustizia e cambiarono identità. E da non crederci, iniziarono anche a lavorare: si misero a fare gli operai in delle ditte del nord Italia.
Non si sposarono mai. Si persero di vista. Anche il quartiere non seppe mai che fine ebbero fatto. Girava voce che furono vittime della lupara bianca.
Sembrarono svaniti nel nulla, sembrò che nessuno seppe che fine avessero fatto, ma Il Pakistano sapeva. Aveva sempre sospettato. Da anni si trovava in una carcere di massima sicurezza, dove tuttavia era riuscito a suon di mazzette a portare avanti le sue personalissime indagini. Alla fine i suoi sospetti ebbero molte conferme. Giosuè il Pakistano incominciò a meditare vendetta.

Era un giorno di primavera quando Ninuccio apprese della morte di Totuccio. Lo riconobbe in foto, durante un servizio al telegiornale. Pur mostrando i segni del tempo, il viso non riuscì a lasciare indifferente Ninuccio. Subito gli sembrò famigliare e dopo una decina di minuti ebbe una folgorazione: Totuccio. Era lui. Era certo. Lo trovarono su una panchina con una siringa al braccio.
Iniziò a sudare freddo. Capì che fu scoperto e fu ammazzato. Certo poteva avere commesso qualche altro sgarro verso altra gente, magari slavi o rumeni. Oppure il cambio d’identità e l’esilio lo hanno portato alla depressione e indotto a drogarsi pesantemente. Balle! Sapeva che quelle congetture che iniziò a porsi, erano solo blandi tentativi per cercar di non perdere la testa.
Contattò lo sbirro che seguì sin dall’inizio le operazioni del programma di protezione. Fu tranquillizzato. Quello gli disse di restare calmo, che quello non era il suo amico e che non c’entrava niente con i delitti di mafia.
Un po’ si tranquillizzò e tornò alla vita di tutti i giorni con più serenità.
Tre giorni dopo però, mentre si recava al lavoro in auto, sentì al radiogiornale del ritrovamento sulle rive del fiume di un cadavere.
Non diede molta importanza alla notizia, sul lavoro poi non ci pensò proprio. Sulla strada del ritorno, nel solo accendere l’autoradio, gli tornò in mente quel fatto.
A casa, mentre consumava la sua cena, un panino con la mortadella, ascoltò con molta attenzione il telegiornale. Il corpo di quell’uomo sembrava, dai primi rilievi, che fosse stato trasportato in un secondo momento sul luogo del rinvenimento. L’identità non era stata accertata. Addosso non c’erano documenti ed il corpo si presentava pesantemente martoriato. Sembrava, per gli inquirenti, che fu pestavo da diverse persone con mazze e spranghe e picchiato fin quando non avesse smesso di respirare.
Non si sapeva se quello fosse Peppino, ma Ninuccio iniziò a sentirsi male. Fu preso da un’atroce ansia, da una feroce paranoia e da un’insistente tachicardia.
Pensava che quello era il corpo di Peppino e che lo avessero portato lì, nel comune dove viveva lui, per avvertirgli che adesso sarebbe toccato a lui.
Serrò tutte le finestre e mise dei mobili dietro la porta. La notte non riuscì a chiudere occhio. Il giorno dopo non andò al lavoro.
Dopo un paio di giorni telefonò la segretaria del tuo titolare. Si scusò per non aver avvisato ed inventò una banale scusa per giustificarsi.
Il giorno dopo si recò al lavoro. Era agitatissimo. Non voleva assolutamente morire, ma stava andando incontro al suo destino.
Sovrapensiero non si fermò ad uno stop. Un impetuoso suono di clacson lo destò, un bestione su ruote…
Erano le sette e trentadue del mattino quando un autotreno lo travolse.


Francesco Favia


7 aprile ’08 ore 15:47

ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale

Libreria

C’e chi fa chilometri per arrivare in città, per poi passare tutto il tempo in un megastore di dischi e libri. Ma perché? Ma che posto è? Che strano… in questi oggetti inanimati esposti c’è più vita della gente più che animata che c’è fuori.
Questo posto di cultura non annoia, ma perché? Quelle poltrone di pelle ti invitano a sederti e ad immergerti in uno di quei libri… Forse dovrei comprarmi una di quelle poltrone… Che sia solo un’oasi in questa grigia città? Il tempo qui trascorre più velocemente… E’ già ora. Sbrigati che parte il treno.


Francesco Favia


23 marzo 2005

qualche anno fa'

3 gennaio 2006

Credo che non avrò mai una famiglia. E forse neanche un lavoro. Ho questa terribile sensazione. Ho proprio il presentimento che andrò a finire male.

Francesco Favia


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venerdì 6 marzo 2009

Il repartista e il vecchiarello


30 giugno ’07

Ero al lavoro. Sono sempre al lavoro. Ho appena il tempo per mangiare, cacare e dormire. Si può avere appena il tempo per mangiare, cacare e dormire? Se questa è la vita, è meglio morire. Lavorare tutte quelle ore per nemmeno uno stipendio. Lo so, bisogna accontentarsi, da noi al sud ci si deve arrangiare così. O ti fai sfruttare o vai a spacciare.
Stamattina, dicevo, ero al lavoro. Si presenta un signore anziano. Si, era proprio un vecchiarello. Sembra stanco, debilitato, affaticato. Gli ho servito delle pesche. Mi dice che ha preso due autobus per venire fin qui. Dice che viene dal quartiere. Gli dico che non ne valeva la pena di fare tanta strada e che con questo caldo non si sarebbe dovuto affaticare. Rispetto ai 47° di qualche giorno fa’, questo caldo non è niente, mi dice. Ed io continuo sulla stessa scia, dicendo che 47° erano in strada, ma addosso se ne sentivano 50°.
Poi mi fa: “Ma lei è di Bari?”
“Si.” Gli rispondo.
“Sicuro?”
“Si, si.” Faccio. “Nato e cresciuto a San Pasquale.”
“Non si direbbe.” Osserva il vecchiarello “A Bari non ho mai incontrato una persona gentile ed educata.”
Sorrido. “La ringrazio, lo prendo come un complimento.”
Infine se ne va, mentre con quella piccola consolazione di essere apprezzati, restavo là.
Francesco Favia


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