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martedì 27 gennaio 2009

Week-end di un alienato

Quel sabato sera era abbastanza giù di morale. Raramente si sono visti sprazzi di allegria sul suo volto, ma quella sera era particolarmente afflitto. Gioacchino fu cresciuto dai suoi genitori a suon di insulti e umiliazioni. Viveva nel rancore e nella rabbia sin da bambino. Poco più di una decina d’anni fa’ andò via di casa. Adesso era un trentacinquenne che viveva solo in uno squallido monolocale di periferia. Per vivere faceva l’operaio; lavorava per una ditta di traslochi. Col suo stipendio a malapena sopravviveva, a stento riusciva a far la spesa e a pagare l’affitto e le bollette. Nonostante queste difficoltà economiche, cercava di non farsi mai mancare una bottiglia di buon whisky e qualche sigaro, sempre utili in quei momenti di maggiore sconforto.
Indifferentemente lavorava, faceva il suo dovere, ma quelle volte in cui il suo datore di lavoro lo trattava come una bestia, difficilmente gli riusciva facile fare l’automa. Tuttavia per non rischiare di andare a dormire sotto qualche ponte, resisteva alle umiliazioni, alle quali era comunque abituato.
Aveva perennemente sul viso un’espressione schifata, disgustata da questa vita, dalla sua vita.
Ogni tanto si sfogava su un sacco per pugili che aveva appeso al soffitto.
Quel pomeriggio dormì e si alzò stordito. Cenò con qualche scatoletta. Poi si rimise a letto a guardare la televisione. Non c’era una nulla di interessante come ogni sabato sera, come ogni sera.
Allora decise di sfogliare una riviste osé, ma dopo qualche minuto la riposò, annoiato, sul comodino.
In passato qualche volta se l’andava a fare una birra con qualche collega, ma erano ormai anni che lavorava solamente, diventando apatico ad ogni forma di svago in compagnia di altra gente. Un po’ perché tutti quelli che conosceva avevano messo su famiglia, un po’ perché la voglia di non vedere nessuno dopo il lavoro aveva avuto il sopravvento negli anni.
E adesso se ne restava lì, disteso su un letto eternamente sfatto, a guardare il soffitto e a contare le macchie di umidità. Lì, abulico, immobile. Fermo ad attendere che quel temporaneo viaggio della vita terminasse. Ad attendere la morte come via di fuga, ad attendere il suo destino come un pluriergastolano.
Ad un tratto, si alzò e andò ad accomodarsi nella zona giorno, poco più in là di dov’era.
Uscì la bottiglia del whisky, prese un bicchiere, appoggiò tutto sul sudicio tavolo e si sedette su una disagevole sedia. Si riempì il primo bicchiere. Lo sorseggiò. Si fermò poi ad osservarlo. Nella stanza il silenzio regnava. Una luce gialla, opaca, provava ad illuminare. Una formica passeggiava sul tavolo, prendendolo per una piazza. Su di essa, Gioacchino, ci versò un po’ di whisky. Continuò imperterrita nel suo percorso, seppur con qualche difficoltà nell’uscire da quel laghetto alcolico. Gioacchino riprese a bere, osservando la formica che si allontanava lemme lemme.
L’uomo si riempì un secondo bicchiere e se lo scolò a sua volta.
Andò in bagno e dopo aver pisciato, mentre si lavava le mani, si guardò nel piccolo specchio pieno di aloni. Mormorò: “Ammazza quanto sei brutto…”
Uscito dal cesso, andò in cerca di un sigaro ed una volta trovato, se lo accese con una lunga boccata. Una folta nebbia avvolse il suo sguardo spento. Se ne stava in piedi e fumava rilassato augurandosi un tumore. Il sigaro che si accese non era un mozzicone, ma poco ci mancava. Iniziò a camminare per la stanza, spargendo cenere. Iniziò ad assalirlo una sensazione di noia ed insoddisfazione. Non sapeva nemmeno lui di cosa avesse bisogno. Non era voglia di scopare. Era da tempo che non nutriva particolari desideri. Ci fu un periodo che si ammazzava di seghe e si fece tutte le mercenarie della zona, ma poi si stufò anche di quei passatempi. Non aveva fame e non aveva sete. E non aveva voglia di vedere e parlare con nessuno. Si stava annoiando, ma non voleva porre rimedio a quello stato d’animo. Lavorare, seppur lo facesse con indifferenza, senza particolari entusiasmi, gli piaceva, perché facendo qualcosa, evitava la noia. Tornava a casa con piacere dopo il lavoro, poiché la stanchezza accumulata, gli procurava una certa soddisfazione e poteva starsene nella sua apatia e nella sua solitudine con gioia, poiché comunque stava facendo qualcosa, ossia, si stava riposando, stava recuperando le forze come una batteria sottocarica.
Nel fine settimana era riposato e quel suo stato di isolamento a cui comunque teneva molto, gli creava tuttavia un lieve fastidio. Proprio come quando un insetto cammina sulla pelle di un uomo che non si accorge che un essere lo sta usando come tappeto rosso. Così era il fastidio che provava in quelle ore libere, solitamente dedicate alla famiglia e agli amici. Gioacchino non aveva né famiglia, né amici. I suoi unici rapporti umani, erano circoscritti ai soli ambiti lavorativi. E gli piacevano quei rapporti fatti di solidarietà, unione e complicità che aveva con i colleghi. Un po’ meno gli piacevano i rapporti col suo titolare, ma spesso non gli dava molto peso; l’importante per lui è che pagasse e che fosse puntuale nel farlo.
Terminò il sigaro, ma prima di spegnerlo per gettarlo, ustionò a morte una formica.
Non sapendo più cosa fare, si grattò le chiappe, spense la luce e si coricò, pur sapendo che per qualche ora ancora non avrebbe chiuso occhio.

Francesco Favia

domenica 6 aprile 2008 ore 16:07


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